Stando alla ricerca di Carlotta Saletti Salza, professoressa presso l’Università di Verona, su un totale di 8.830 procedure di adottabilità, i minori rom e sinti dichiarati adottabili in sette sedi di Tribunali Minorili italiani nel periodo compreso tra il 1985 e il 2005 sono stati 258. Quello che è oggi uno dei maggiori studiosi di cultura romanì in Italia, il professor Leonardo Piasere, commenta i dati: “Se consideriamo che la popolazione dei rom e dei sinti in Italia ammonta allo 0,15% circa della popolazione totale, capiamo che la percentuale di procedure di adottabilità dello 0,15%, cioè in sintonia con la proporzione della popolazione, corrisponderebbe a circa 13 procedure sulle 8.830. Ora il numero di procedure riguardanti rom e sinti, è superiore del 1700% a tale cifra!”
Questo mio intervento non è contro il sistema delle adozioni, perché, lo dico chiaramente, ci sono casi in cui togliere il bambino a una famiglia rom o sinta è cosa sacrosanta. Ciò che mi interessa è porre alcune domande.
Stando alla legge italiana sono dichiarati in stato di adottabilità i minori di cui sia accertata la situazione di “abbandono” (legge 184 del 2001), ma nella legge 149 dello stesso anno, si dice che:
1) Le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente la potestà genitoriale non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia. A tal fine a favore della famiglia sono disposti interventi di sostegno e di aiuto.
2) Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie competenze, sostengono, con idonei interventi, nel rispetto della loro autonomia e nei limiti delle risorse finanziarie disponibili, i nuclei famigliari a rischio, al fine di prevenire l’abbandono e di consentire al minore di essere educato nell’ambito della propria famiglia….
L’interpretazione del termine “abbandono” è così lasciato alla discrezionalità del Tribunale dei Minori. Ma cosa si intende per abbandono?
Ipotizziamo ci siano due bambini rom di sette e dieci anni, Alin e Mari, che a causa della povertà dei genitori sono costretti a vivere sotto un ponte. Vengono sgomberati e i Vigili Urbani li portano sotto un altro ponte. Lì assistono all’incendio della loro baracca e all’orribile morte di quattro amichetti. Vengono sgomberati nuovamente e ritornano sotto il primo ponte.
I genitori non trovano lavoro (chi di noi assumerebbe un rom che vive sotto un ponte?) e tirano avanti solo con gli aiuti che forniscono loro alcuni volontari della Caritas e dell’Arci. Ogni mattina i genitori di Alin e Mari, però, accompagnano i figli a scuola dove i bambini arrivano sempre puliti e ben vestiti anche grazie all’aiuto dei sopra citati volontari. Aggiungo che i bambini, a detta delle maestre, seguono con sufficiente profitto le lezioni. I pomeriggi dei bambini, però, trascorrono sotto il ponte.
Voglio ora porre alcune domande:
1) Se vedessimo Alin e Mari sotto il ponte e non sapessimo nulla di loro, penseremmo giusta l’affidabilità? E sapendo la loro storia e la loro quotidianità, riterremmo lo stesso giusto toglierli alla famiglia e darli in adozione?
2) Può un’Amministrazione pubblica, di qualunque appartenenza politica, sentirsi priva di responsabilità nel lasciare che una famiglia di rom continui a sopravvivere sotto un ponte?
3) La famiglia di Alin e Mari va sgomberata? E, se si, può lo sgombero di un sottoponte, senza una reale alternativa abitativa, bastare a tutelare i minori che vi abitano?
4) Cosa si fa per prevenire le situazioni di estrema miseria in cui sono costretti a vivere alcuni bambini rom e sinti?
5) Togliere un bambino alla propria famiglia deve essere l’ultima strada percorribile o la prima? E se deve essere l’ultima, perché il numero di procedure riguardanti rom e sinti, è superiore del 1700% a quello delle procedure totali nelle sette sedi dei Tribunali dei Minori che ha preso in esame la professoressa di Verona nel suo libro “Dalla tutela al genocidio?” di Pino Petruzzelli
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